
Bandita di Cassinelle non è un comune, è considerata una frazione di Cassinelle, un paese che nell’ottobre del ’44 fu invaso militarmente dai tedeschi e dai fascisti perché a Bandita si erano installate formazioni partigiane: giovani e uomini che dopo l’otto settembre avevano lasciato le città per dire no alla guerra e sperare che questa finisse.
A Bandita c’erano i ragazzi di Luciano, un antifascista alessandrino, che ‘’creò’’ la formazione “Poldo Gasparotto” della GL ‘’Giustizia e Libertà’’ del Partito d’Azione, il partito di Parri. I nazifascisti arrivarono quel mattino del 7 ottobre e uccisero partigiani e gente del paese compresa una donna e diedero fuoco alle case dei valligiani che avevano dato alloggio ai patrioti che i tedeschi identificavano come ‘’banditi’’.
Fu tragico quel giorno e fu l’inizio di una serie di altri terribili rastrellamenti che colpirono anche Olbicella di Molare e Pian Castagna di Ponzone.
COME NASCONO LE FORMAZIONI PARTIGIANE NELLE VALLI DELL’ACQUESE E L’OVADESE
A pochi giorni dall’otto settembre, nel disorientamento e confusione generali, a Pian Castagna approdano nove prigionieri di guerra evasi dal forte di Col del Giovo, due soldati italiani sbandati e il tenente Ettore Tarateta di Ovada. Li accoglie con umana e cristiana solidarietà il parroco don Paolo Boido.
Il 20 settembre li raggiunge l’ing. Adriano Agostini “Ardesio”, inviato dal Triumvirato insurrezionale di Genova per una prima organizzazione; due giorni dopo arrivano con compiti di comando Walter Fillak e Giacomo Buranello, studenti genovesi comunisti.
Negli stessi giorni, a Castellazzo Bormida, che sarà poi la culla del ribellismo, un ufficiale dei bersaglieri, Luciano Scassi, raccolse attorno a se un notevole gruppo di ex militari. Con Lui il suo braccio destro Prof. Francesco Poggio “Strozzi” rimpatriato dalla Russia, formano il primo nucleo armato di una notevole consistenza. Da Novara Luciano trasporta a Castellazzo Bormida armi e munizioni sottratte alla cattura ed il primo nucleo armato comincia a potenziarsi. Intanto si cercano ovunque armi e si comprano a qualunque prezzo.
Anche a Cantalupo il medico condotto Dott. Giovanni Novelli “Antico” aduna attorno a sè ed al farmacista Dott. Ferrari un altro gruppo di ex militari e giovani animosi. Fra i due paesi avviene la fusione e i due gruppi si aiutano vicendevolmente.
In Alessandria alcuni uomini politici tentano la formazione del C.L.N. che per il momento è solo espressione di volontà di opporsi ai nazi-fascisti. A Luciano viene affidato il comando militare dell’VIII Divisione G.L. “Braccini”. Suo aiutante maggiore in città è Paolo De Maria che sarà poi il Comandante delle squadre cittadine.
Intanto le varie organizzazioni militari sia G.L. che Garibaldine, Patria, Autonome, ecc. aumentavano e si rese necessario un collegatore centrale, che fu trovato nel Colonnello Criscuolo, che divenne il Comandante Militare di Zona. A questo punto il movimento partigiano entra nella fase operativa. Sull ‘Appennino Ligure-Alessandrino sorge la prima banda partigiana garibaldina al Comando di “Achille”, affiancata da una banda comandata da Odino, G.L. e mista. La prima è di stanza sulle pendici del monte Tobbio e Colma; l’altra in quel di Bosio, Regione Benedicta. Dal basso affluiscono in montagna armi e viveri.
NASCE LA DIVISIONE “BRACCINI”(TRATTO DA “IL BRIC DEI GORREI” DI GIOVANNI NOVELLI)
La Divisione “Braccini” comandata da Luciano è emanazione del Movimento Giustizia e Libertà della Provincia di Alessandria. Prende nome da Paolo Braccini, partigiano, membro del Comando Militare del C.L.N. del Piemonte, fucilato al Martinetto di Torino il 5 aprile del 1944.
Luciano andò a Torino e prese contatto con il Generale Oberti. Tornò con precise indicazioni e con 54.000 lire. Queste servirono per le prime spese di organizzazione e di aiuto agli sbandati ed un paio di biglietti da mille per comprare di seconda mano una macchina da scrivere che servì egregiamente in seguito per la diffusione della stampa partigiana. Luciano in Alessandria fece perno sul gabinetto dentistico di De Maria per l’organizzazione Provinciale centrale. Il Collegamento politico si aveva attraverso la locale Cassa di Risparmio per mezzo del Rag. Maranzana e del Dr. Capriata. L’On. Pivano “Nemo”, arrestato, era detenuto nelle carceri di Via Parma, e là si recò con uno stratagemma Luciano per prendere accordi e disposizioni. Quindi i contatti si allargarono al Generale Gallia, al Dott. Ronza, al Prof. Piccinini, ed altri ancora. Inizialmente era il Gen. Gallia l’incaricato dei collegamenti a Torino col movimento Giustizia e Libertà. Nostro ideale era un puro liberal-socialismo che collimava anche con le teorie cristiane. Tale ideale credemmo ravvisare nel programma del Partito d’Azione e militammo nelle formazioni G.L.
Così ebbe inizio il movimento partigiano G.L. nell’alessandrino. Luciano, instancabile, sbarazzino tanto da parere spregiudicato, cominciò un tenace, duro e pericoloso lavoro. Doveva giocare d’audacia per raccogliere adepti; e questi si moltiplicavano con un ritmo sempre crescente, tanto che Luciano fu portato a giocare allo scoperto.
Nei primi di aprile del 1944 iniziò il rastrellamento in grande stile con poderosi mezzi corazzati e l’impiego di imponenti forze, nelle zone di Gavi, Tobbio e Colma. I nazi-fascisti circondarono tutta la zona e partendo concentricamente da Masone, Campoligure, Rossiglione, Ovada, Tagliolo, Lerma, Mornese, Parodi Ligure, Bosio, Gavi, Voltaggio, penetrarono nella zona partigiana scompigliando ed annientando le formazioni partigiane di “Achille” e di “Italo”. Fu a seguito di questo imponente rastrellamento di Pasqua che si sentì la necessità di una nuova sede, che rispondesse ai requisiti di facile arroccabilità pur consentendo un largo margine di sicurezza alla eventuale reazione nazi-fascista. Luciano convocò nella propria abitazione di Castellazzo Bormida “Antico” e “Strozzi” e si studiò un luogo nel quale spostare le forze partigiane. Luciano ci spiegava il suo piano tattico; gli dava forma e vita sulla carta ed il punto venne trovato. Una vasta zona montuosa dai 500 ai 900 metri non intersecata da nessuna strada ma neppure distante da arterie di grande traffico. Zona ideale per permettere delle incursioni rapide e per non meno rapidamente sfuggire agli attacchi nemici, comoda per giungere fino ai bordi della zona partigiana, attraverso un sistema di strade secondarie che avrebbe permesso, in qualunque momento ed in qualsiasi evenienza, il rifornimento e lo sganciamento. A tutti questi pregi faceva difetto la facilità di un rastrellamento, se fatto con metodo e con largo impiego di mezzi, donde scaturiva la necessità che la banda fosse poco numerosa e mobilissima, caratteristiche queste peculiari di ogni banda partigiana. Perciò, secondo le direttive di Luciano, occorreva tener presente la necessità di cambio frequente di residenza, di essere estremamente guardinghi, con un severo scrupoloso servizio di vigilanza e di disciplina militare. Luciano Scassi ed “Antico” convennero sulla località e sul carattere prettamente apolitico che avrebbe assunto la formazione. Il piano venne sottoposto all’approvazione di “Nemo” che mosse alcune obiezioni di varia natura, ma in linea di massima lo approvò. Il sopralluogo di Luciano fu breve . Infatti nel giro di pochi giorni visitò la zona in lungo ed in largo, requisì alcune baracche nel bosco dei Gorrei, studiò e stabilì per i rifornimenti delle specie di “Comandi Tappa” in quei paesi dove era necessario, presso aderenti al movimento clandestino. Ritornato ad Alessandria dichiarò che tutto era pronto e, senza perder tempo, annunciò che sarebbe partito dopo pochi giorni. Infatti la notte del 5 Maggio partì col primo scaglione da Castellazzo Bormida, in bicicletta, con armi e bagagli.
Settembre ’44.
Nel vasto altipiano selvoso compreso tra l’Erro, l’Orba e lo Scrivia brulicavano bande e formazioni partigiane, che cercavano di consolidare, ognuna per proprio conto, adeguati assestamenti topografici, organizzativi e logistici.
I tentativi di riunirle sotto un unico comando operativo erano falliti.
Numerose bande diverse per fisionomia ideologica, dipendenti da comandi non collegati fra loro, mosse da troppa voglia di far valere la propria presenza, si spostavano facilmente da località a località senza alcun criterio di natura tattica. Tutto questo influiva negativamente sulla possibilità d’impiego operativo dei reparti armati: il frazionamento del partigianato locale in tanti piccoli gruppi e i contrasti da cui essi erano divisi, contribuivano ad ostacolare un razionale sviluppo organizzativo e turbavano il regolare andamento della guerriglia.
Schematizzata, questa la dislocazione delle varie formazioni:
Settore Nord.
In settembre la formazione di Luciano Scassi “Luciano”, che nei mesi estivi si era insediata intorno al Bric dei Gorrei, scelto come zona idonea alla guerriglia da Giovanni Novelli “Antico”, Francesco Poggio “Strozzi”, Livio Pivano “Nemo” aveva raggiunto la consistenza di circa 400 unità dislocate tra Morbello, Bandita, Toleto e Ponzone. Costituiva la XIX Brigata G.L. “Poldo Gasparotto”, che ai primi di ottobre si trasformò nell’VIII Divisione G.L. “Paolo Braccini” Luciano Scassi comandante; Giuseppe Piccinini “Casto” commissario; articolata in quattro brigate:
la I a Bandita (F. Goglino “Tito” comandante, G. Novelli “Antico” commissario);
la II a Ponzone-Cimaferle (Filippo Ravera comandante);
la III a Morbello-Cassinelle-Grognardo (Guglielmo Grattatola comandante);
la IV a Orsara Bormida-Montaldo Bormida (Piero Boidi comandante). Successivamente la Braccini passò al comando di Ernesto Pasquarelli “Barbero”. Notevole il prestigio che i comandanti gielle, specialmente Luciano, avevano acquisito sia nel campo militare che in quello civile. A questi contributi di ordinata convivenza sociale cooperavano, con proposte e consigli, don Allemani a Toleto, don Barba a Bandita, don Boido a Pian Castagna; supplivano all’assenza delle autorità municipali insediate dal regime.
Settore sud-orientale.
In località Garrone, frazione di Rossiglione sulla sinistra dello Stura, il gruppo più consistente di scampati ai rastrellamenti della Benedicta aveva formato, con Franco Gonzatti “Leo”, la Brigata “Buranello”, che a metà settembre era entrata a far parte della Divisione Garibaldi “Doria” (Comandante Vito Doria “Carlo”, reduce di Spagna, v. comandante Grga Cupic “Boro”).
A Pareto e nella zona Pian Castagna-Moretti operavano gruppi della Brigata G.L. “C. Astengo”, dislocata nel savonese.
A fine settembre si costituì la II Divisione unificata Ligure-Alessandrina con l’incorporamento di tre formazioni:
la Brigata di manovra “Michele Bonaria”, comandata dal capitano degli alpini Domenico Lanza “Mingo” (un centinaio di uomini dislocati a Moretti-Pian Castagna rafforzati da un grosso reparto di disertori della San Marco);
la Brigata “Buranello” ( 150-200 effettivi nell’alta val d’Orba);
la Brigata Matteotti “Alta Val Bormida” insediata a San Luca di Molare (comandante “Carlo”, con dipendenza diretta dalla VI Zona operativa ligure e sede del comando a Olbicella).
L’acroccoro acquese-ovadese poteva ben dirsi un alveare, ma purtroppo senza la suddivisione di lavoro e l’organizzazione delle api. La controguerriglia fascista, sporadica nell’estate, andava via via facendosi più intensa. Ne fu preludio un episodio del 19 settembre: un centinaio di tedeschi in bicicletta, allo spuntare del giorno, raggiungeva Ponzone e sparava sui primi che capitavano. Caddero uccisi il daziere Adriano Antonio e il giovane partigiano Lodovico Ravera, fu gravemente ferito Molteni Giuseppe, che morì l’indomani. La madre del partigiano dichiarò di non riconoscere il figlio, evitando così rappresaglie al paese.
I partigiani si convinsero fosse giunta l’ora decisiva. Luciano, per parte sua, predisponeva già i piani per una marcia su Alessandria. In quel clima di euforia gli intensi movimenti di truppe germaniche motorizzate volti ad assicurare l’agibilità delle arterie transappenniniche sia per far affluire eventuali rinforzi sulle coste liguri sia per garantire, alla peggio, una linea di ritirata venivano interpretati come preparativi della ritirata e fuga del tedesco verso il nord.
RASTRELLAMENTI DEL 7 OTTOBRE A BANDITA
Nella notte tra il 6 e il 7 ottobre, un migliaio di tedeschi e fascisti muovono da Ovada sulla direttrice Molare-Cassinelle con obbiettivo Bandita. L’avanguardia, otto camion carichi di truppa, due autoblindo con lanciafiamme, mitragliere da 20 mm e mortai, arriva al crocevia della Madonnina: suona tre colpi di clacson (la “parola d’ordine” rivelata da una spia), fulmina il partigiano di guardia, supera il blocco e la postazione soprastante (la vecchia mitragliatrice Fiat s’inceppa), cattura i cinque partigiani che resistono per consentire ai compagni di sganciarsi e di ripiegare verso il Bric dei Gorrei, abbatte tre contadini e una donna. Verso le ore sei: divisi in due colonne, i tedeschi entrano in Bandita, infuriano sino alle tre del pomeriggio, mettono a soqquadro il paese e dintorni, saccheggiano e incendiano case e stalle, con un cannone da 47 e un mortaio bombardano alla cieca le alture circostanti. Gli abitanti, concentrati a forza sulla piazza, semivestiti, trascorrono ore e ore circondati dalle sentinelle, che insultano, percuotono i partigiani catturati e li uccidono, uno alla volta, con un colpo di pistola alla nuca.
“Il 7 ottobre giornata del disastro, – così il parroco don Barba nella Relazione al Vescovo – alle ore 6 del mattino una sparatoria infernale si sente dal paese verso la regione della Madonnina, si vedono colonne immense di fumo (…) i nazifascisti bruciano ovunque. Arrivano poi in paese (…) la gente in preda a un indicibile spavento fugge nei boschi. Furono prese 20 persone e portate in prigione in Ovada, rilasciate poi dopo 19 giorni”.
Il parroco di Toleto, don Guido Allemani, che attraverso i boschi ha raggiunto Bandita, scrive: “È uno spettacolo straziante: urla, pianti di donne e di bambini, case incendiate che crollano, scoppi di mortai e raffiche di mitragliatrice per ogni dove. Toleto aspetta ansiosa la sua condanna che per quel giorno viene rimandata”.
Le brigate G.L. della Divisione “Braccini”, sorprese e sopraffatte dall’imponente attacco, si sganciarono: la I ripiegò con “Antico” su Pian Castagna e poi a Olbicella; le altre non intervennero. Luciano, che si trovava a Toleto, aveva dichiarato che “qualsiasi tentativo sarebbe stato inutile suicidio”.
La sera stessa, a Bandita, Luciano confidò: “Credevo che, al vedermi, mi avrebbero sputato in faccia, mi avrebbero cacciato via, invece non hanno detto nulla, hanno compreso. Sai, una povera donna, che raccoglieva quanto aveva potuto salvare dalla sua casa in fiamme, mi ha consegnato questo caricatore dicendomi: – Tenga, signor comandante, a lei può ancora servire”.
A Toleto, il giorno dopo: si riuniscono i comandanti della Divisione “Braccini” per esaminare l’accaduto e la condotta futura. Convengono che la guerriglia partigiana esclude per sua natura gli scontri frontali di tipo tradizionale e comporta, invece, sganciamenti e attacchi continui, come si dovrebbe fare nel prevedibile rastrellamento, che quanto prima investirà la Divisione Unificata Ligure-Alessandrina dislocata nel settore sud orientale.
Si delineano due tendenze: o reazione immediata alla disfatta subita o occultamento delle armi e materiali, in attesa di momenti più propizi. Impossibile l’accordo; a ogni capo è lasciata libertà di decidere secondo il personale convincimento. La III brigata smobilita, la I e la II rimangono nella zona. Conseguenza: grave indebolimento della Divisione.
Nel giorno stesso i garibaldini della Divisione Ligure-Alessandrina rinforzano ulteriormente il «quadrato» intorno a Olbicella, dove ha sede il comando: si preparano all’inevitabile scontro coi nazifascisti (lo fa credere il contemporaneo rastrellamento di Rossiglione e delle vallate intorno).
A Bandita, nella Cappelletta della Madonnina, si celebrano le esequie delle dieci vittime. Luciano sparge la prima palata di terra sulla fossa comune, “suggellando, dice, la loro gloria umile e silenziosa”.
RACCONTO DI GUGLIELMO GRATTAROLA
Rastrellamenti – 7 ottobre: Fu il giorno della triste sorte di Bandita.
Verso le 5 del mattino una pattuglia di nazi-fascisti al corrente dei dovuti segnali tra il passaggio del posto di blocco giunse alla Madonnina , sorprendendo così il corpo di guardia sistemato nella Capelletta.
Uno dei nostri fu ucciso; gli altri catturati ad eccezione di un partigiano che riuscì a fuggire.
A poca distanza la volante di “Tito” (malauguratamente lontano per missione) riuscì appena a fuggire e mettere in allarme il grosso della brigata che stava quasi a 1 km di distanza in località Maginetta. Confusione e panico seguirono improvvisamente. Su varco di Madonnina irruppero i tedeschi con autoblindo, lanciafiamme ed alcune armi pesanti. Si suddivisero in due colonne e diedero subito fuoco alle case, incalzando la brigata che si ritirava disordinatamente verso i Gorrei.
Alle 6 udii da Cascina Avaria i primi colpi di un cannone da 47 ed un mortaio (la fucileria non si sente per la conformazione del terreno) e compresi che a Bandita succedeva qualcosa di grave.
Radunai gli uomini (quel giorno purtroppo circa una ventina era assente per varie missioni) e mi avviai decisamente verso Cascina Fosse, preceduto da due pattuglie giunto sul Bric Ron del Contino, mi apparve la tremenda scena del paese in fiamme. Attraverso fitte cortine di fumo intravvedevo i soldati che andavano e venivano e scorsi sulla strada che da Bandita conduce a Madonnina ben 8 camion e 2 autoblindo. In quella desolazione ad intervalli si udiva il mortaio che sparava sui Gorrei e il susseguirsi dei colpi della mitragliera.
Cercai il luogo più idoneo per seguire i movimenti dei tedeschi e inviai subito un portaordini a Luciano mandandogli a dire che io attendevo con circa 30 uomini sulla posizione raggiunta. Luciano seppe così solamente verso le 7,30 cosa succedeva esattamente a Bandita. Infatti la brigata di “Tito” sbandatasi verso il bric dei Gorrei aveva perduto ogni collegamento con il comando. Non sapevo che cosa avrebbe fatto Luciano ma pensavo che sarebbe giunto sul posto con il rinforzo di Filippo e di Gigi, con il nuovo distaccamento a Piancastagna. Con queste formazioni si sarebbe raggiunto un numero sufficiente a tendere una imboscata al nemico sulla via del ritorno. Invece alle 8,30 ricevetti un portaordini di Luciano che mi ingiungeva di rimanere sul posto ed attendere mandando però notizie ogni ora se negative, immediate se positive. Alcuni soldati tedeschi nel frattempo si spinsero fino quasi ai Canavai per cui noi ci spostammo verso quella località con l’intenzione di tendere loro un’imboscata. Cosa vana perché furono richiamati a Madonnina dai loro comandanti. Intanto si faceva tardi e nessuno arrivava. I tedeschi compiuta la loro opera di distruzione accennavano ad andarsene.
Così racconta gli episodi di quella mattina il Parroco di Bandita Don Andrea Barba:
“Alle ore 6 del mattino inizia una sparatoria infernale proprio presso la chiesa Madonnina. Si vedono subito le fiamme delle prime case incendiate dai tedeschi e repubblicani (case Migliardi e Casalunga). Gli incendi divampano da ogni parte. La gente fugge spaventata nei boschi. Intanto 12 camions e squadre di armati arrivano in centro paese. Entrano nelle case e le spogliano di tutto caricando sui camions. In alcune case trovano divise dì ex militari; incendiano cinque case nel centro del paese. Nella Valle Fredda furono incendiate e rase al suolo una ventina di case. Ucciso un uomo dì 58 anni, un giovane di 23 anni ed una donna di 56 anni. Uccisi sette partigiani di cui tre sorpresi nel sonno nella chiesa della Madonnina e perciò anche la chiesa venne incendiata e distrutta; depredata e rovinata la casa parrocchiale. Furono presi 20 ostaggi e portati in prigione a Ovada: vennero poi rilasciati dopo 19 giorni. Il parroco, troppo compromesso coi partigiani e anche per non aver provveduto a che non occupassero la chiesa, ricercato dai nazi-fascisti, dovette fuggire. Il bilancio totale fu dì 40 case distrutte, 20 capannoni adibiti a fienili, 4 morti tra i civili e 7 partigiani. Furono interrogati, al fine di conoscere la consistenza delle forze partigiane, alcuni abitanti di Bandita”.
Allora decidemmo di agire coadiuvati dal coraggioso Parroco di Toleto e da Tonio sparando sui tedeschi dalla strada Toniola – Chiapuzzotta.
Giungemmo in ritardo perché i colpi sparati andavano a vuoto tanto che il nemico reagì debolmente. Rientrammo verso le 3 pomeridiane stanchi e demoralizzati. Incombeva su di noi il triste destino di quei 10 morti (6 partigiani e 4 civili) assassinati dal nemico nel più barbaro dei modi. Infatti i 5 partigiani catturati furono prima percossi e poi finiti con un colpo di pistola alla nuca. Incombeva su di noi l’assillo di un domani simile, unito al sordo dolore di aver perduto dei compagni e di aver assistito a tanta rovina con l’impossibilità materiale di impedirla.
Nel pomeriggio Luciano fu sul posto, distribuì ai danneggiati quanto aveva: danaro, coperte, indumenti, grano. Ed alla sera quando lo incontrai mi disse: ” vedi sono gente umile e semplice ma hanno compreso che non c’era nulla da fare e che non siamo dei vigliacchi. Hanno compreso che un qualsiasi tentativo sarebbe stato inutile suicidio. Credevo che al vedermi mi avrebbero sputato in faccia, mi avrebbero cacciato via, invece non hanno detto nulla, hanno compreso. Sai, una povera donna che raccoglieva quanto aveva potuto salvare dalla sua casa in fiamme mi ha consegnato questo caricatore dicendomi: – tenga Signor Comandante a lei può ancora servire. Il popolo, il vero popolo italiano, sa essere sublime’’.
Quella notte raddoppiai le sentinelle e le pattuglie che spinsi sino ai Bensi e al Bricco fornendole di mezzi celeri per comunicare giacchè pensavo che il mattino dopo sarebbe stata la volta di Morbello e Toleto. E’ buona tattica infatti non lasciare mai che un avversario colpito possa correre ai ripari ma occorre insistere ancora subito dopo con maggior violenza per abbatterlo definitivamente.
IL CONVEGNO DI TOLETO E LA SEPOLTURA DEI CADUTI
L’otto ottobre non ci portò novità. Giunsi a Toleto verso le 9 del mattino mentre stavano ritornando da ogni parte gli sbandati della Maginetta, stanchi, laceri e affamati. Fu davvero un triste spettacolo. Cattiva prova avevano dato i 30 alpini catturati un mese prima nell’azione dei cavalli, per cui furono subito messi in libertà e se ne andarono parte con la banda di “Carlo” e parte con “Mingo”. Luciano era molto preoccupato e stabilì per il pomeriggio un convegno di tutti i comandanti. Presiedette il colonnello Tellung di Ponzone ed erano presenti: “Antico”, “Sergio”, “Pettinato”, “Tito” giunto allora da Castelferro, Mica, Filippo e Boidi. Si trattò e si convenne su questo punto: riduzione di uomini, eliminando i meno atti, costituzione di piccole squadre autonome e isolate, leggere manovrabilissime. Tutti erano d’accordo sul fatto che non bisognava accettare combattimenti in condizioni di inferiorità, ma sull’immediato da farsi in vista del nuovo imminente attacco vi furono due tendenze:
La prima sostenuta da Sergio, Luciano, Tito e Filippo per cui occorreva mantenere in efficienza le formazioni onde averle subito alla mano a pericolo passato;
La seconda sostenuta dal colonnello Tellung e da me proposta per cui si doveva inviare a casa e in altre zone, ma sempre isolatamente, la maggior parte degli uomini, nascondere le armi esuberanti ed i materiali nei luoghi più disparati e predisporre per riorganizzare gli uomini dopo i rastrellamenti.
Secondo Sergio e gli altri ciò equivaleva a sciogliere le brigate e in nessun modo e per nessuna ragione si doveva arrivare a questo. Dopo aver ampiamente esaminato il pro e il contro di ogni soluzione lasciai Toleto con ampie facoltà di agire secondo il mio punto di vista e non persi tempo giacchè ogni minuto era prezioso.
Feci subito nascondere gli automezzi e il motocarro in piena boscaglia, mimetizzandoli con quanto era possibile e cominciai a smobilitare gli uomini assegnando loro lire 500 ciascuno. Alla sera dell’otto la brigata contava solamente 30 patrioti. Il 9 mattina proseguii nel mio lavoro. Restarono in 20 e al pomeriggio con 12 uomini mi recai a Bandita dai compagni caduti. Gli ho tutti quei morti ancora impressi nella memoria. Ragazzi di vent’anni, poche ore prima pieni di forza e di giovinezza, erano stesi freddi ed insanguinati nella piccola cappella di Madonnina. I loro volti erano irriconoscibili tanto che una madre non riconobbe il figliolo e si consolò sperando che fosse ancora tra gli sbandati al Bric dei Gorrei! Pioveva! Le sei bare dei nostri compagni furono allineate in una una grande fossa nel cimitero di Bandita e Luciano suggellò la loro gloria, utile e silenziosa con la prima palata di terra. Durante la triste cerimonia si udì una scarica di mitra. Il padre di uno dei giovani uccisi vendicava il figlio facendo sommaria giustizia di una spia di cui si erano serviti i fascisti, per il rastrellamento e che fu da noi catturata la mattina stessa a Cassinelle.
AVVENIMENTI SUCCESSIVI
Dopo gli episodi dell’ottobre 44, Bandita fu ulteriormente oggetto di rastrellamenti:
Il 17 dicembre 1944 altro rastrellamento operato dalle forze della Divisione San Marco. Non vi furono danni gravi: vennero arrestati 5 giovani sprovvisti di documenti; per l’intervento e spiegazioni del parroco due furono subito rilasciati; gli altri un mese dopo.
Il 21 dicembre 1944 nuovo rastrellamento da parte dei tedeschi: non si lamentano danni.
11 aprile 1945 ancora una puntata di soldati della Divisione San Marco: fuoco di mitra che dura per almeno un’ora: fortunatamente nessuna vittima. Il comandante capitano Bestetti annuncia al parroco che vi saranno rappresaglie perchè tutta la popolazione ospita i partigiani: il Parroco discute e riesce a evitare danni. I militari prendono con loro 12 persone in ostaggio: saranno rilasciate dopo alcuni giorni di prigionia.
TESTIMONIANZE
TESTIMONIANZA DI CATERINA GUALA RACCOLTA DA DOMENICO GUALA (DINO)
7 ottobre 1944
– Zona Chiesetta della Madonnina
Un gruppo di partigiani era posto sopra la Madonnina sulla strada per Morbello / Piancastagna in una piccola radura (con tende) avendo da lì un’ottima visuale sulla strada proveniente da Ovada / Cassinelle. La mattina (molto presto) del 7 ottobre del 1944, truppe tedesche e fasciste (salendo da Ovada) sorpresero i partigiani (probabilmente assonnati causa le eccessive libagioni della sera prima) che furono catturati.
– Borgo Casalunga.
Da giorni nel borgo c’era il sentore che a breve qualcosa di grave sarebbe successo. Guala Domenico (69 anni) capostipite della famiglia, forse attirato da rumori e/o spari si allontana all’alba da casa senza che nessuno se ne accorga. All’arrivo delle truppe nazifasciste i componenti della famiglia e alcuni vicini si rifugiano nella cantina della casa che è data alle fiamme. Le persone che si erano nascoste sono fatte uscire e gli uomini, tra cui mio padre Giuseppe (Giuspin), mio zio Giacomo (Giacomin) e mio cugino Pellegrino Maio (Lino), sono catturati e portati al paese di Bandita (il Bric).
– Paese
Qui, le persone sono allineate di fronte al panificio di Tomaso Ottonelli. In maniera rocambolesca e temeraria, mio zio Giacomin riesce a nascondersi e quindi a evitare di essere caricato sui camion che porteranno le persone arrestate a Ovada.
– Casalunga
Dei Camion sostano brevemente alla Casalunga e nel mentre mio cugino Lino ha l’occasione di informare Enrica Pistone (Richetta) che il marito Giacomin è riuscito a scappare.
– Paese/Mazzacani
Richetta decide di salire in paese e in seguito si reca ai Mazzacani (dove risiedono i suoi parenti) alla ricerca del marito. Durante il percorso incontra sua madre e non si riconoscono a causa delle tensioni e preoccupazioni di quel terribile giorno. Dopo Richetta incontra Visentin (sarto del paese) che la rassicura che il marito è riuscito indenne ad allontanarsi dal paese. Giacomin che intanto si era recato ai Mazzacani poco dopo si ricongiunge con la moglie Richetta.
– Casalunga
Nel frattempo Giovanna Guala (sorella di Giacomin e Giuspin) decide insieme al figlio ancora infante di scendere a piedi verso Cassinelle dove risiedono i familiari del marito Agostino Cavanna. Purtroppo durante la giornata viene trovato, sulla collinetta della Casalunga, il corpo sfigurato di Guala Domenico ucciso da un colpo di fucile presumibilmente sparato al primo mattino durante lo scontro tra partigiani e truppe nazifasciste.
DESCRIZIONE TRATTA DAL LIBRO DI CARTOSIO ENRICO
Il 27 aprile 1944 presso il mulino avviene un primo fatto doloroso.
Un gruppo di cinque partigiani entrano nel mulino per ascoltare la radio. Il mugnaio era assente e rientrando trova i cinque partigiani, essendo peraltro ubriaco, insulta pesantemente gli uomini. L’uomo impugna un coltello minacciandoli e se non fosse stato per l’intervento della moglie e di altre persone presenti al fatto i partigiani lo avrebbero sicuramente ucciso. Ma nel mese di settembre del 1944 l’offensiva alleata contro le truppe nazifasciste che sta risalendo l’Italia da sud a nord ha un nuovo rallentamento sulla linea gotica sotto il livello della pianura padana e il nord Italia si trova totalmente in balia dei tedeschi e dei repubblichini di Salò. I comandi nazifascisti decidono che quello è il momento di effettuare rastrellamenti e offensive contro i covi partigiani nella convinzione di poter recuperare i territori da loro controllati. Il 7 ottobre 1944 viene organizzato un grande rastrellamento da effettuarsi a Bandita. Sarà l’atto più cruento e disastroso della guerra sia per Bandita che per la famiglia Cartosio. Va detto che queste brigate partigiane da mesi infastidivano i nazifascisti con le loro azioni di sabotaggio e molestia. Una delegazione di questi partigiani capeggiata da un certo “Tito” era posta a difesa del loro arsenale di armi e munizioni che si trovava presso Casa Tognola e in particolare nell’attuale casa di Migliardi Giovanna. La mitragliatrice per la difesa era posta sulla sommità della collina che dominava la strada verso Cassinelle e quindi Ovada. Alle 5 del mattino del 7 ottobre una colonna composta da 12 camion e 2 autoblindo di nazifascisti muove da Ovada in direzione Bandita. I partigiani atti alla guardia dormivano e furono fortunatamente per loro, svegliati da mio nonno Cino e da suo cugino Ernesto, presi alla sprovvista decisero di fuggire invece che tentare una qualche resistenza. Arrivati alle 6 all’incrocio della Madonnina dove vi era un posto di blocco partigiano la colonna militare sorprese sette partigiani che dormivano nella chiesa, nello scontro a fuoco uno fu ucciso subito, gli altri sei vennero catturati e uccisi di lì a poco dopo essere stati interrogati. Va detto che “Luciano” il comandante dei partigiani avvisato da “Tito” solo alle 7,30 decise di non intervenire in difesa del paese perché a suo dire un attacco alla colonna nazifascista avrebbe sicuramente allungato l’elenco delle vittime, comprese quelle civili. La palazzina dei Migliardi adiacente la chiesetta venne saccheggiata e data alle fiamme; la colonna militare si divise in tre tronconi, una parte puntò verso Bandita, una parte verso Valle Fredda e la terza risalì verso Casa Tognola, Morbello. La colonna che punta su Bandita saccheggia distrugge e dà alle fiamme la località Casalunga, arriva in paese dove vengono incendiate altre 5 case. La zona della Valle Fredda ebbe la sorte peggiore, infatti furono distrutte tutte le case e borgate della Fornace, della Bazarlicca dove fra l’altro vivevano tra gli altri anche Giovanni Battista e Domenico Cartosio rispettivamente padre e fratello di Rosina moglie di Ernesto. All’arrivo dei militari questi ultimi si erano rifugiati nei boschi come per altro facevano tutti gli uomini (erano infatti soggetti al rastrellamento e potevano essere fatti prigionieri o uccisi). La curiosità e la preoccupazione di vedere cosa stesse succedendo a casa fece sì che si sporsero dal nascondiglio quel tanto che bastò per essere individuati, una raffica di mitra li uccise all’istante. L’opera di distruzione continuò e la borgata Marielli fu totalmente incendiata, i soldati arrivarono alla Masinetta dove una donna di 65 anni mentre assisteva alla devastazione della sua casa commise l’errore di insultare una guida fascista di Bandita che era presente con la colonna, fu barbaramente uccisa. Infine la colonna raggiunse la casa della Vairera che fu anch’essa distrutta. Per dovere di cronaca ricordo che la guida fascista che tanto baldanzoso e arrogante si era presentato quel giorno alla Masinetta finirà a sua volta ammazzato durante la resa dei conti a fine guerra. Ma è la colonna che risalì verso Casa Tognola che ovviamente toccò da vicino la nostra famiglia. Mio nonno ed Ernesto erano scappati trovando rifugio nei boschi, mio nonno precisamente nel pozzo della “fontana del Ratto”. Riguardo a questo, il nonno mi raccontava che oltre alla preoccupazione per i famigliari a casa, aveva avuto durante tutto il tempo una grande paura dovuta al fatto che il suo cane continuava a fare un andirivieni continuo tra il suo nascondiglio e casa con il rischio di insospettire i tedeschi che invece fortunatamente ignorarono l’animale. A casa rimasero mia nonna Rina con mio padre che allora aveva 8 anni mio zio Giancarlo che aveva 4 anni e la zia Giulia, mentre nell’altra casa vi era la cugina Rosina e i figli Sergio e Gianni e la mamma di Ernesto, Margherita Lanza. Furono inoltre radunati presso casa Tognola anche gli abitanti delle altre case vicine.I soldati armati e urlando costrinsero le donne e i bambini ad uscire di casa e ad allinearsi sotto minaccia delle armi vicino a degli alberi di acacia che si trovavano sopra alla scarpata che dava sopra l’attuale stalla. Va ricordato che lo zio Giancarlo dormiva nel suo lettino e quando sua madre manifestò l’intenzione di andare a prenderlo i fascisti, da prima cercarono di impedirglielo ma poi dopo le animose proteste lasciarono che la donna portasse al sicuro il figlio. Una volta allineati gli ostaggi i soldati presero dalle stalle le bestie bovine per portarle con loro e precisamente per quanto riguardava la famiglia di mio nonno un bue, due vacche e un vitello, dette bestie grazie al bue stesso riusciranno in seguito a staccarsi dalla colonna degli animali passando inosservate e torneranno a casa. Poi dal fienile prelevarono dei gabbioni di fieno e foglie portandole in casa e appiccarono quindi il fuoco. Le case di allora avevano tutte i solai di legno come soletta e quindi il fuoco nel giro di pochi minuti arrivò al tetto distruggendo ogni cosa e risparmiando solo gli spessi muri maestri perimetrali che erano in pietra. Le due famiglie Cartosio continuavano a stare costantemente sotto la minaccia delle armi e i nazifascisti bruciarono anche le case successive ovvero casa Gianco e casa Bibbo dove però una parte del fabbricato si salvò. Infine un militare tedesco diede un ordine agli altri, i soldati salirono sui camion e si ritirarono.
Un cumulo di macerie fumanti era ciò che restava delle case appartenute al nonno Cino e a suo cugino Ernesto. Quel giorno, il 7 ottobre 1944, 10 persone di cui 7 partigiani e 3 civili furono uccisi a Bandita, 20 persone furono tradotte al carcere di Ovada e rilasciate dopo 19 giorni. I cadaveri furono riuniti sul pavimento della chiesetta della Madonnina, resi irriconoscibili dal loro stesso sangue. Il 9 ottobre, due giorni dopo, furono tutti seppelliti nel cimitero di Bandita, i partigiani all’interno di una fossa comune. Mio padre mi ha più volte detto di ricordare questi cadaveri stesi sul pavimento della chiesa. Cito ora una testimonianza di mia madre Agnese la quale aveva all’epoca anche essa come mio padre 8 anni. La famiglia Cavanna viveva all’epoca nella cascina Casa Nuova la cui strada per accedervi si distacca dalla strada Valle Fredda. I nazifascisti arrivarono presso la loro casa e visitarono anche la cascina Marchese posta più a monte, ma passando davanti all’abitazione della mia famiglia materna mia nonna Albina sentì dire loro di soprassedere alla distruzione della loro casa. Evidentemente i tedeschi erano stati messi al corrente dalle spie fasciste che mio nonno Domenico nulla aveva a che fare con i partigiani e che lo stesso mio nonno oltre ad avere già all’epoca problemi di salute viveva con la moglie e tre figlie femmine, risultava perciò ai loro occhi del tutto non pericoloso. Erano circa le 15,30 quando la colonna di camion e soldati lasciò Bandita, tutti gli uomini compreso mio nonno aspettarono ancora un pò e poi tornarono alle loro case, o meglio a ciò che ne rimaneva. Lo spettacolo doveva essere desolante, certo in famiglia tutti avevano avuta salva la loro vita ma ciò che serviva per viverla era andato in fumo nel breve tempo di poche ore. La famiglia Cartosio insieme a degli altri scampati della zona trovò rifugio nella casa che fu salvata dal fuoco di casa Bibbo, e a tarda sera fu raggiunta da Caterina Gallo mamma di mia cugina. L’anziana donna aveva portato con sè una cesta di pane e altre cose da mangiare in modo che la famiglia potesse finalmente consumare un pasto dopo quelle drammatiche ore.
Il 17 dicembre 1944 ci fu un nuovo rastrellamento in Bandita ma con conseguenze non molto gravi; 5 arresti di cui 2 persone rilasciate immediatamente grazie all’intervento del parroco. Gli altri 3 vennero rilasciati dopo un mese.
Il 21 dicembre ovvero 4 giorni dopo, nuovo rastrellamento nel corso del quale fu preso anche il nonno Cino. Capitò infatti che il nonno era andato da Testa Calda a Casa Tognola dove sotto la volta intatta della cantina era intento a distillare vino per fare della grappa in compagnia del cugino Andrea Migliardi. Arrivarono dunque i nazifascisti che trovando le due persone, li costrinsero quindi a seguirli ( il sequestro serviva infatti per coprirsi la marcia verso Morbello-Cassinelle e quindi Ovada di modo che i partigiani non attaccassero il convoglio). Gli ostaggi furono incamminati a forza verso Costa di Morbello e quindi fatti scendere fino a Rio Caramagna, da lì fatti salire a Cassinelle e quindi scesero verso Molare dove i soldati lasciarono libere le persone in precedenza sequestrate che poterono tornare a Bandita. Nel gennaio del 1945 Augusto Pesce “Zelante” fascista fu prelevato dall’osteria del paese nella quale si trovava da un gruppo di partigiani, trascinato alle porte di Bandita fu “giustiziato” con una raffica di mitra e il suo corpo abbandonato nella neve che ricopriva la strada.
L’11 aprile 1945 altro e ultimo rastrellamento in Bandita con sparatoria (senza morti nè feriti fortunatamente), 12 persone fermate e rilasciate il giorno dopo. Il 26 aprile 1945 giorno successivo alla liberazione di Milano, Don Angelo Barba parroco della chiesa di Bandita suonò a festa le campane annunciando la fine della guerra alla popolazione del paese, l’incubo era finito.
INTERROGATORIO DEGLI OSTAGGI (del 10.10.1944)
Migliardi Andrea, nato l’11/10/16 in Bandita, abitante a Bandita Cascina Madoninna.
I banditi si trovavano da giugno sui monti di Monte Gorrei. Circa 20 giorni prima i banditi giunsero in località Bandita. Nella piccola Cappella di fronte alla casa del Migliardi si installò una guardia di 6 persone. All’inizio anche Migliardi dovette consegnare una camera, ma poiché la sua famiglia è abbastanza numerosa e c’è a disposizione poco spazio, si ritirano (= se ne andarono). Ormai ogni giorno i banditi prendevano i loro viveri dal Migliardi, pure senza un qualsiasi pagamento. Poiché suo fratello Migliardi Giovanni è fascista, a Migliardi Andrea fu impedito di lasciare la località, e dopo le 9 di sera non poteva lasciare neppure la sua casa, altrimenti i banditi l’avrebbero fucilato.
Nei primi mesi – giugno e luglio – capo della banda era Luciano. Migliardi lo aveva spesso visto, tuttavia non aveva parlato con lui. Poiché gli era impedito di muoversi (=trovarsi) nelle vicinanze della scuola, non è in grado di indicare quanto numerosa fosse la scuola a quel tempo. Dai discorsi della gente Migliardi seppe che il capo della banda, Luciano, nel mese di settembre si era recato a Toledo (sic) con una parte della banda. I banditi rimasti furono guidati, poi, da un capo banda di nome Tito. Migliardi vedeva ogni giorno nuovi volti a Bandita e pertanto suppone che la banda si ingrandisse di giorno in giorno.
La parte superiore della casa (= la metà sopra) di Migliardi era stata trasformata (=adattata) a centrale di informazioni. Da questo punto di osservazione si potevano vedere tutte le strade che portano da Bandita a Cassinelle, Cremolino, Molare, e Ovada. Furono installati molti posti di guardia con cannocchiali. Giorno e notte c’era un continuo movimento di auto, Migliardi suppone che fossero portate armi e munizioni in questa frazione.
Da viaggiatori, Migliardi ha udito che circa un mese prima a Molare era stato fucilato un ufficiale tedesco. Non ha udito nulla sulla caduta del tenente Laila.
Giorno e notte i banditi andavano con i loro automezzi a Cassinelle e di lì si dividevano in varie direzioni. Migliardi non può dire in quale direzione venissero portate le iniziative (=lett).
Non ha visto alcun soldato tedesco e nulla ha neppure udito che nelle mani dei banditi si trovano soldati tedeschi tra cui un sottufficiale.
Notte e giorno sono passati molti aerei, ma Migliardi non sa se siano stati gettati sacche, ecc…
A Toleto si trova il capo supremo Luciano. Migliardi ha poi udito che si trovano anche banditi a Cavanne e nei monti che circondano Toleto, Cavanne e Bandita.
Gli altri interrogatori sono poco significativi e pertanto non viene riportata la traduzione.
File contenente copia degli originali degli interrogatori in lingua tedesca:
IMMAGINI DI ALCUNE CASE INCENDIATE E OGGI RESTAURATE





I LUOGHI A RICORDO DEL RASTRELLAMENTO

Lapide della provincia di Alessandria

Cippo ai fucilati in valle Fredda

Chiesa della Madonnina